La lingua come luogo di
accoglienza
CHI SIAMO
Nel 2010 abbiamo aperto una scuola
per adulti di origine straniera nella periferia nord di Milano,
attualmente lavoriamo all'interno di un complesso dove, fino a qualche anno fa,
c'era un ospedale psichiatrico, poi trasformato da un gruppo di persone in
senso basagliano fino a divenire un luogo aperto alla città, dove si trovano un
ristorante, un bar, un ostello, un teatro, degli orti comunitari. E la nostra
scuola.
Ci piace questo posto proprio per il
lavoro che vi è stato compiuto negli ultimi quindici anni, perché siamo
convinte che chi ha lavorato in psichiatria secondo l'ottica della restituzione
ai pazienti della dignità, della postura di essere umano, abbia molto da insegnare
a chi lavora con le persone straniere, che vivono una segregazione meno
visibile, magari senza interventi drammatici come l'elettroshock o la
contenzione forzata, ma non per questo meno dura. Basta pensare ai Cie, che
sono dei veri e propri carcere, non a caso soggetti a continue rivolte.
E' una scuola privata, nel senso che non
ha alcun finanziamento statale, e quindi sopravvive grazie a qualche bando e
allo sforzo volontaristico di un gruppo di donne che lavorano in altri momenti,
anche la sera e la domenica, per poter essere a scuola con regolarità almeno
due giorni a settimana. E' frequentata da giovani uomini, fra i 16 e i 30 anni,
e da donne, talvolta anche dai loro bambini. Due anni fa abbiamo lavorato con
persone provenienti da 27 paesi diversi; l'anno scorso 24. Di media, abbiamo
gruppi di circa 30-40 persone, con diversissime competenze di partenza.
Quando abbiamo iniziato a lavorare, nel
2010, eravamo convinte che la cosa più importante fosse offrire una sorta di
isola felice: uno spazio ricco di esperienze, accogliente. Eravamo ancora
imbevute di una cultura che mette al centro della vita dei migranti, e dei
rifugiati in particolare, l'idea di trauma, e quindi la nostra ricerca andava
in questa direzione: lenire il trauma, offrire uno spazio di resilienza.
Nel corso del primo anno di vita, e
soprattutto grazie ai primi eventi pubblici organizzati, abbiamo capito invece
che la cosa davvero importante era lavorare con gli studenti affinché la lingua
che costruivamo insieme fosse capace di uscire, divenisse parola pubblica. Gli
studenti volevano parlare in prima persona. Questo è così diventato nel
tempo il primo asse su cui si snoda la vita di scuola: usare
l'insegnamento della lingua per scoprire, insieme alle persone che vengono a
scuola, come stare insieme, cosa mettere in atto per cambiare le cose, quali
parole e discorsi produrre dentro la scuola da portare fuori dalla scuola.
Quindi costruire un gruppo capace di porsi verso l'esterno, di prendere parola
pubblicamente.
Così, se molte delle metodologie sono
rimaste le stesse, è cambiato decisamente il fine della scuola e con questo la
visione delle persone che la frequentano: non solo uomini e donne traumatizzati
dalla guerra, dalla migrazione, dai naufragi - anche se questo esiste - ma persone
dotate di grandi risorse, capaci, appunto, di affrontare una vita in un nuovo
paese, scampare una guerra, sopravvivere ai naufragi. Soprattutto, persone per
le quali la lingua ha una funzione non solo personale (ricostruire la propria
vita in un nuovo idioma) ma anche sociale: comprendere e interagire con il
paese nel quale sono venuti a vivere.
Freire diceva che qualunque persona
analfabeta impara a leggere e a scrivere in una settimana, se ciò di cui legge
e scrive ha un contenuto politico. Noi non siamo così ottimiste - l'esperienza
ci insegna che ci vuole almeno un anno e mezzo di lavoro costante perché un
persona analfabeta possa iniziare ad esprimersi in una lingua non sua
attraverso la scrittura e ad allargare il proprio mondo con la lettura - ma tempo
a parte siamo d'accordo con Freire. Quel che conta è ciò di cui si parla, si
scrive, si legge.
Questa è la ragione principale per cui non
usiamo libri di testo didattici. In questa scelta non c'è alcuna presunzione
rispetto al faticoso lavoro che altri fanno per facilitare l'insegnamento e
l'apprendimento della lingua, ma la convinzione che nessuno, tranne le persone
che frequentano in quel momento la scuola, possa sapere in anticipo ciò che
quelle persone sentono di dover esprimere.
E così l'apprendimento avviene passo
passo, a partire dalle prime parole che gli studenti portano a scuola. E'
questo il secondo asse della scuola, asse che comporta la
messa in opera di una didattica viva, variata e flessibile, aperta al
meticciato metodologico.
COME
Maria Montessori ha scritto che "la
lingua è ben più che una bandiera per un popolo, il suo significato è l'unione
nella cosa più alta". Imparare la lingua di un paese, significa quindi
unirsi con quel paese. E per unirsi, unirsi nel vero senso del verbo, occorre
amarsi. Occorre un desiderio reciproco. Nel corso del tempo ci siamo scontrate
sempre più con la difficoltà di suscitare questo desiderio, questo eros. La
situazione economica, il fatto che molte persone si trovano in Italia per
l'accordo di Dublino e non in base alla loro volontà, rende difficile amare
l'italiano. Ma quale sia la fatica, è sul desiderio, sulla possibilità di
innamorarsi della nuova lingua, che ci giochiamo tutto, cercando di fare della
scuola un luogo il più possibile ricco di esperienze, di fare pratico, ma anche
di riflessione.
Il primo lavoro che facciamo è
sull'ambiente, cercando di renderlo il più possibile piacevole, ricco di
materiali, di proposte. Il Movimento di Cooperazione Educativa diceva già molti
anni fa che si arriva a scuola con un corpo e una storia. E’ essenziale che la
scuola non dimentichi questo corpo, il che significa giochi, danze, canti,
teatro, caffè, biscotti, acqua fresca ma, soprattutto, abbondanza di materiali,
molti dei quali di derivazione montessoriana, quasi tutti autoprodotti, che
permettano un apprendimento personale ed esperienziale della lingua.
Questo apprendimento è particolarmente
importante se si lavora con persone totalmente analfabete, persone cioè
che non hanno alcuna manualità fine, ma neanche griglie grammaticali e
sintattiche grazie alle quali porre a confronto le nuove conoscenze:
sperimentare le singole lettere in molti modi diversi, a partire dal tocco dei
polpastrelli sulle sagome di carta smerigliata Montessori, per arrivare alla
pittura, consente di “mangiare” le lettere, di metterle dentro di sé, di
acquisirle in modo lento ma sostanziale.
Altrettanto importante è un accesso alla
grammatica attraverso il sostegno di un mondo simbolico, anche questo appreso
grazie a Montessori: i simboli grammaticali, i materiali per l'analisi logica,
che usiamo non solo per strutturare la sintassi, ma per dare forma e corpo alla
narrazione, e quindi alla storia individuale. La nutrono brani di letteratura
che raramente modifichiamo, albi illustrati, atlanti, dizionari, poesia, opere
d’arte.
Accanto a questo lavoro, nella scuola
occupano uno spazio e un tempo i laboratori manuali: attraverso il fare delle
mani ogni persona (anche chi parla e comprende pochissimo) può costruire ed
esprimere contenuti personali, ed è su quei contenuti che si può, in un secondo
tempo, costruire la lingua, individuando insieme parole, frasi, ma anche temi.
Da un certo momento dell'anno in poi, iniziamo a pensare al momento di chiusura della scuola, che non è solo una festa, ma una presa di parola pubblica, sia individualmente, sia collettivamente attraverso lo strumento della scrittura collettiva messo a punto da Lorenzo Milani.